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Le antiche origini della Sicilia

Sicani e Celti Irlandesi

Questo articolo vuole mettere in luce le numerosissime affinità che i Sicani, il primo popolo che si insediò in Sicilia, e Adrano in particolare hanno avuto con gli antichi Irlandesi. Nomi, toponimi, mitologia e soprattutto simbologia si ripetono in entrambe le due isole e fra le loro popolazioni con singolare frequenza.

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In Irlanda esistono due colline denominate i seni di Anu, in irlandese Dà Chich Anu, Paps of Anu in inglese. Il nome Anu, reso al femminile in irlandese, potrebbe confondere i nostri lettori dal momento che, nel pantheon teogonico sicano, sumero, germanico e, in una parola, indoeuropeo, tale nome è utilizzato al maschile. A cosa si deve dunque questa differenza di sesso tramandata dagli Irlandesi?

È probabile che i Celti Irlandesi, così come gli Ittiti, avessero maturato un concetto di divinità asessuata o meglio bisessuale; del resto anche i papi Wojtyla e Ratzinger hanno invocato il dio cristiano quale padre e madre. Pertanto noi crediamo che, nel caso specifico, il nome Anu, poi identificato o deformato in Danu, sia stato utilizzato dai Celti irlandesi per indicare il loro dio maschio\femmina; lo confermerebbe il fatto che ancor oggi a uomini nord europei viene apposto il nome di Dana (uno tra i tanti è il geologo Dana Kuhn).

Si discute, fra gli accademici irlandesi, se Anu e Dana fossero la stessa dea e se gli antichi Celti fossero una comunità a reggenza matriarcale, visto che tanta popolarità si è dato al popolo della dea Dana, cioè i Tuatha de Danan (il nome Dana, a nostro avviso, si sarebbe formato dall’accostamento tra la preposizione “da” che in tedesco vuol dire qui, in questo luogo, e Ahn\a che vuol dire Avo\a, antenato\a). Che i popoli nordici si fossero dati regine e che tale abitudine sussista ancor oggi, millenni più tardi, rende semplicemente giustizia al fatto che gli occidentali, a differenza degli orientali, avessero nei confronti della donna una apertura totale, ravvisabile ancora nella società spartana, presso i Veda, gli Ittiti e ancora nella Roma augustea. La supremazia, nel pantheon irlandese, di una dea, non implica, ovviamente, che l’intera visione del mondo celtico e nord europeo soggiacesse ad una visione matriarcale della società.

 

È probabile che i Celti Irlandesi, così come gli Ittiti, avessero maturato un concetto di divinità asessuata o meglio bisessuale; del resto anche i papi Wojtyla e Ratzinger hanno invocato il dio cristiano quale padre e madre. Pertanto noi crediamo che, nel caso specifico, il nome Anu, poi identificato o deformato in Danu, sia stato utilizzato dai Celti irlandesi per indicare il loro dio maschio\femmina; lo confermerebbe il fatto che ancor oggi a uomini nord europei viene apposto il nome di Dana (uno tra i tanti è il geologo Dana Kuhn).

Si discute, fra gli accademici irlandesi, se Anu e Dana fossero la stessa dea e se gli antichi Celti fossero una comunità a reggenza matriarcale, visto che tanta popolarità si è dato al popolo della dea Dana, cioè i Tuatha de Danan (il nome Dana, a nostro avviso, si sarebbe formato dall’accostamento tra la preposizione “da” che in tedesco vuol dire qui, in questo luogo, e Ahn\a che vuol dire Avo\a, antenato\a). Che i popoli nordici si fossero dati regine e che tale abitudine sussista ancor oggi, millenni più tardi, rende semplicemente giustizia al fatto che gli occidentali, a differenza degli orientali, avessero nei confronti della donna una apertura totale, ravvisabile ancora nella società spartana, presso i Veda, gli Ittiti e ancora nella Roma augustea. La supremazia, nel pantheon irlandese, di una dea, non implica, ovviamente, che l’intera visione del mondo celtico e nord europeo soggiacesse ad una visione matriarcale della società.

Ma torniamo alle tradizioni mitiche comuni di Siciliani e Irlandesi, partendo dal nome di una principessa irlandese, Eithnè, nome per noi oltremodo familiare, essendo stato questo il nome attribuito in un secondo tempo alla città di Innessa, prima che fosse denominata Adrano, ed il nome dell’attuale vulcano siciliano, nonché, come da noi supposto in una ricostruzione storica, della figlia del principe sicano della città di Innessa, Teuto. In Irlanda Eithnè è la figlia di Balor, il re irlandese della stirpe dei Fomori. Balor è descritto quale gigante con un solo occhio, dunque un Ciclope, e il suo popolo rappresenta il caos iniziale. 

La principessa sposa un principe della razza dei Tuatha de Danan, un’etnia che rappresenta, al contrario dei Fomori, il popolo della luce, dell’organizzazione, della coscienza disciplinata. Se è vera la nostra tesi sulla consanguineità tra i Sicani e gli Irlandesi e che entrambi, oltre a parlare in origine una comune lingua, attingevano ad una medesima cultura, in Sicilia, al vulcano, non si poteva che dare tale nome, in quanto la sua attività rappresenta un’ingovernabile forza delle energie telluriche del caos.

 

Da non trascurare la tradizione secondo la quale al vulcano siciliano erano associati i Ciclopi (anche Balor lo era!), i quali vivevano alle sue pendici. Lug, nipote della Eithnè celta, svolse, a giudicare dal racconto mitologico che si fa di lui, un ruolo altamente simbolico che, a nostro avviso, è ricollegabile al simbolismo equilibratore delle due spirali, che si dipanano, non casualmente, verso sinistra e verso destra. Infatti Lug sintetizza in sé le enormi forze ciclopiche dei Fomori, l’etnia cui fa parte la nonna Eithnè, e le capacità organizzative dei Tuatha de Dana, di cui fa parte il nonno. 

Come Indra, l’uomo diventato dio nel racconto vedico, Lug riesce a far parte del banchetto di dèi che si svolge nella collina di Tara, grazie alle intelligenti risposte da lui abilmente fornite alle domande che gli vengono poste. È probabilmente per la capacità mostrata da Lug di svicolare dalle domande poste dal custode della reggia di Tara, attraverso il ricorso a mezze verità, che gli venne attribuito tale nome. Infatti in tedesco Lug significa bugia, inganno, frode. Lug applicò insomma, in tempi non sospetti, il biblico detto secondo il quale “bisogna utilizzare violenza per entrare nel regno di Dio”.

Facendo un breve volo pindarico intorno all’etimologia dei nomi sicani in ambito toponomastico, ricordiamo che la città siciliana di Triocala (l’araba Caltabellotta) aveva, secondo i Greci, il significato di “le tre cose belle”. Il nome Trinakria, se fatto derivare dall’accostamento dei lessemi tri-an-akara, potrebbe tradursi “le tre terre o promontori di Ano, l’avo”; oppure, se fatto derivare da tri-an-kr, letteralmente “tre-avo-potenze”, potrebbe essere tradotto “le tre potenze dell’Avo”. A Palma di Montechiaro è stata rinvenuta una triqueta o triscele del XIII sec. a.C. , disegnata su un vaso, in cui, al centro delle tre gambe, vi è ritratta la testa della Gorgone: se si inscrivono idealmente le tre gambe dell’emblema siciliano all’interno dell’isola, il centro, raffigurato con la testa della Gorgone, coinciderebbe con Enna, luogo da noi identificato con la primeva reggia del dio sicano Ano, reggia che il dio, successivamente, avrebbe donato alla pronipote, Inn-ana\Proserpina. Questa reggia siciliana era il corrispettivo sumero della reggia mesopotamica chiamata Eanna (si rimanda all’articolo, Un dio tra il Simeto e l’Eufrate). Il simbolo della Triscele, tra l’altro, è anche uno dei simboli più importanti d’Irlanda.

 

Le “Donne di Fuori”

Impressionanti sono le analogie tra i racconti scozzesi, irlandesi e del nord Italia e alcune testimonianze raccolte in Sicilia a partire dalla seconda metà del ‘500. Diverse donne affermavano di incontrarsi periodicamente con misteriosi esseri femminili: le “donne de fuora”, le donne di fuori. Con loro andavano a banchettare in castelli remoti o sui prati. 

Queste magiche donne erano riccamente vestite ma avevano zampe di gatto o zoccoli equini. Al centro delle loro compagnie c’era una divinità femminile dai molti nomi: la Matrona, la Maestra, la Signora Greca, la Sapiente Sibilla, la Regina, talvolta accompagnata da un re – delle Fate. Ai suoi seguaci, la Signora insegnava a curare i malefici. Il favore riservato dalle donne di fuori alle case ben spazzate ci rimanda alle buone signore, le fate, le seguaci di Oriente.

E’ interessante notare la sorprendente presenza in Sicilia di tradizioni legate alla Morgana arturiana. I miraggi che si vedono nello stretto di Messina vengono chiamati “fata Morgana” e l’associazione di Morgana con la Sicilia e in particolare l’Etna è già registrata in alcuni antichi poemi francesi e provenzali.

Alcuni studiosi hanno ipotizzato un collegamento tra la figura di Morgana, derivante dalla celtica Morrigan – dea della guerra, della morte e delle profezie – con una grande dea mediterranea pre-greca che avrebbe ispirato anche figure di celebri maghe come Circe e Medea.

 

I SENONI

Prenderemo spunto dal nome dell’illustre antenato siciliano citato da Cicerone nel corso del processo intentato a Caio Verre, Senone di Mene, per squarciare un ulteriore velo che ammanta la storia della Sicilia pre-greca. Il nome in questione è un etnico che allude all’ascendenza gallica di Senone di Mineo.

È noto che i Senoni erano una delle tante tribù che Giulio Cesare incontrò durante la conquista della Gallia. Ancor prima che i Galli Senoni fossero menzionati da Cesare, già nel 390 a.C. avevano fatto parlare di sé in Italia. Infatti questa tribù aveva messo a ferro e fuoco la città più potente d’Italia, Roma, atto temerario che fece guadagnare al capo che la comandava l’attributo di Brenno, che significa l’incendiario, dal germanico brennen ardere, incendiare. Nella sua descrizione del popolo gallo, Cesare mette in luce il prestigioso ruolo che avevano i sacerdoti Druidi in seno alla loro società. Quest’ordine sacerdotale si occupava dell’istruzione dei giovani e della formazione della futura classe dirigente. Cesare scrive:
“Vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dèi”.

L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà della presenza druidica fra i Celti, popolo dal quale i Druidi prendono origine, come sostiene lo stesso Cesare. I Celti, d’altra parte, si distinguono dai Galli solo per il nome che li contraddistingue e che può essere considerato una sorta di soprannome. L’antica abitudine di dare dei soprannomi, del resto, ci viene confermata da Erodoto, il quale la attribuisce ai Persiani (StorieI,139). È probabile che l’appellativo “Celta”, divenuto in seguito un etnico, derivi dal vocabolo cenedl che, in lingua irlandese, indica un gruppo umano unito da vincoli di sangue; che l’appellativo Galli derivi da Kalla, col significato di chiamare e, a tal proposito, il Generale romano racconta che i Galli, comunicando da villaggio in villaggio, “si chiamavano” lanciando forti grida; mentre quello di Germani derivi dager e mann, uomini con la lancia. In tempi remoti dunque Celti, Galli, Germani, Iperborei altro non erano che un unico popolo denominato, convenzionalmente, con il nome di popolo germanico.

Come si evince dalla descrizione che ne fa Cesare, a cui si aggiungono quelle di Plinio il Vecchio, Teopompo, Diogene Laerzio e molti altri storici antichi, i Druidi erano conoscitori di un’arcana sapienza. Studiando ulteriormente le società in cui i Druidi avevano un ruolo preminente, emerge ancora che essi contavano sull’infinita potenzialità della mente umana, che stimolavano in continuazione. Allenavano la memoria, componevano versi ed esercitavano riti evocatori al fine di produrre una manifestazione del divino. Non stupirà, pertanto, se in Grecia, area geografica affine a quella siciliana per cultura, circa duecento anni prima dell’esistenza del nostro illustre siciliano di Mineo, un altro Senone fondava una scuola di pensiero, che dalla Stoà di Atene sarebbe confluita nei salotti buoni della Roma imperiale e avrebbe inciso nelle menti più illustri della società romana, trovando in Catone Uticense prima e poi in Seneca i più celebri rappresentanti. Il riferimento va a Zenone di Cizio, fondatore dello stoicismo ( la s, secondo la rotazione consonantica espressa nella legge di Grimm, sarebbe mutata in z ).

Oltre un secolo prima della nascita dello stoicismo in Grecia ad opera del greco Senone\Zenone, e quattro secoli prima rispetto al periodo in cui operò il siciliano Senone, ritroviamo nella patria di quest’ultimo, Mene (l’attuale Mineo), un altro illustre conterraneo in odor di druidismo, il grande condottiero Ducezio. Nato anch’esso a Mene, secondo la testimonianza di Diodoro, e sorvolando in questa sede sullo studio della sua prorompente personalità, oggetto di un precedente saggio ci limiteremo soltanto a segnalare ai nostri attenti lettori che il nome della città in cui egli nacque è già di per sé una testimonianza del fatto che essa fosse sede di un ordine sacerdotale affine a quello dei druidi galli preposto al culto degli dèi Palici, il cui antro oracolare si trovava proprio nei pressi di questa città, tra Mineo e Palagonia. Infatti il radicale Mn che compone il toponimo, significa mente. Il nesso consonantico in questione forma ancora i nomi di Mnemosine, la memoria, figlia di Ur-Ano, e di Minerva, nata dalla testa o mente di Zeus.

Non possiamo fare passare inosservata l’affinità spirituale tra il panteismo proposto da Zenone, fondatore della filosofia stoica, e quello riscontrabile nell’atteggiamento religioso druida, che vedeva in ogni singolo elemento del mondo la manifestazione del divino. Per comprendere come il panteismo druidico fosse una scuola di pensiero presente in Sicilia, crediamo sia sufficiente visitare i luoghi di culto sicani, che ancora si ergono come cattedrali naturali, Pantalica, Cava Grande, Valle delle Muse e tanti altri ancora, e poi osservare i Dolmen di Avola, Sciacca o Ragusa e compararli con quelli della celtica Irlanda, terra in cui il druidismo scandiva la vita religiosa quotidiana di ogni singolo uomo. Sul significato religioso dei dolmen presenti in Sicilia così come in Irlanda, nell’antica Gallia e in altri luoghi del nord Europa, crediamo non vi siano più dubbi. Del resto è nota l’abitudine dei primi patriarchi biblici di innalzare steli, “mucchi di pietre”, altari, laddove si era palesato il sacro. È altrettanto evidente come la relazione tra le due caste sacerdotali, quella dei Dru-eid o Dru-iti celtici e degli Odhr-an-iti siciliani, venga a crearsi attraverso il nesso consonantico dhr presente in entrambi i nomi. Il nesso consonantico dhr allude ad una forza, ad una potenza extrafisica che si manifesta in modo violento, con furore, tanto che il suono onomatopeico che si emette pronunciandolo fa pensare al ringhiare di un animale in fase di attacco. Lo si ritrova anche nel nome di un animale immaginario che gli scandinavi ebbero caro, il drago, al punto di scolpirne la testa nella prua delle loro navi e chiamarle drakkar, drago. 

I Druidi dunque erano coloro che potevano gestire questa forza violenta di ordine extrafisico nelle due possibili varianti: forza che si manifestava indipendentemente dalla volontà del sacerdote e forza evocata dal sacerdote. La Bibbia fa frequente riferimento a questa inspiegabile forza, definita divina, alla sua violenta manifestazione. I Patriarchi che ne vengono a contatto si meravigliano di rimanere in vita dopo averne sperimentato gli effetti, tanto che, nell’Antico Testamento, ricorrono frasi, pronunciate dai patriarchi, del tipo “ho visto dio faccia a faccia e sono rimasto vivo”. Altre volte si rimaneva folgorati o momentaneamente accecati, come nel caso di Saulo (Paolo). Alla grande capacità creativa della mente fa allusione Zarathustra, quando si riferisce al dio avestico Ahura Mazda, definendolo il dio che crea con la mente. Zaratustra, nell’Avesta, fa spesso riferimento ad una forza, la drui, alla quale attribuisce una connotazione di negatività. La drui, che pare gestita da un ordine sacerdotale antagonista riconducibile ai Magi, è attribuita al potente dio Angra Mainyu. Passeremo sotto silenzio in questa sede il significato del nome Mainyu, dall’analisi del quale ricaviamo la convinzione che sia questo il dio che crea con la mente piuttosto che Haura Mazda, per osservare che, al tempo di Zarathustra, le due regioni confinanti, Media e Persia, erano in conflitto e gli ordini religiosi dei due territori combattevano la loro guerra al servizio della propria patria utilizzando, su un piano metafisico, mezzi quali scomuniche, pratiche magiche, anatemi e maledizioni, tutte forze riconducibili al nesso consonantico dhr.

Il nome di un mago medo, oppositore a Zarathustra, non pone dubbi sull’origine nord europea di questi operatori di magia. Il mago si chiamava Akt ossia colui che agisce o colui che sacrifica. La presenza dei Germani in Persia è attestata dallo storico Erodoto. Essi vi erano presenti già da molto tempo e rinsanguavano continuamente la stirpe attraverso periodiche migrazioni. Una delle ondate migratorie, né la prima né l’ultima, fu quella nota come migrazione dei “popoli del mare”.

 Crediamo che il nome Ciro o Kuruś con cui Zarathustra, utilizzando il linguaggio metaforico proprio dei druidi, denominava il famoso re, avesse il significato, denso di simbolismo, di “mucca rossa”, da Kù vacca e rus rosso. Rus, si ricorderà, era un appellativo dato ai Varieghi svedesi per il colore dei loro capelli ed il cognome Russo è frequentissimo in Italia, in particolare nel meridione. Che Ciro avesse connotazioni somatiche nord europee non deve stupire per diversi motivi. Già Diodoro faceva riferimento ad una quasi sottomissione dell’intera Asia da parte dei Cimbri avvenuta in tempi lontanissimi dalla sua epoca. Ed infatti Sargon, il grande re di Akkad, in Mesopotamia, era biondo e si vantava di aver sottomesso il popolo dalle teste nere. Eschilo nella tragedia I Persiani, chiama criseo , cioè biondo, Matallo, uno dei sottoposti di Serse al comando di diecimila Persiani. La madre di Serse si chiamava Atossa, dallo svedese ut, ossia fuori, esterno, ed ass, che nel linguaggio runico significa ispirazione, presagio; infatti la donna, attraverso i sogni che la turbavano ogni notte e che faceva interpretare ai Magi, aveva continue premonizioni circa il futuro disastro della campagna militare condotta dal figlio contro la Grecia. 

La madre di Ciro si chiama Mandane, da man mente e Dana, la dea madre celtica. Dunque non ci si meravigli se la descrizione che fa Erodoto dei Persiani è perfettamente sovrapponibile a quella che, cinque secoli dopo, Tacito avrebbe fatto dei Germani. Ma le analogie continuano: un secolo prima che Ciro strappasse il regno ai Medi, questi erano governati da Deioce, al quale si attribuisce l’unificazione delle tribù mede in un unico popolo e la formazione della Media in un unico regno. Magi era il nome di una delle tante tribù presenti nella Media, che aveva il compito di fornire la casta sacerdotale al paese. I Magi erano chiamati dal re medo Astiage per interpretare i suoi sogni. Deioce, il riunificatore medo, viene descritto come un giudice che si era messo in vista per la correttezza delle sue sentenze e successivamente eletto re per unanime consenso. Dei Druidi Cesare afferma che erano gli unici deputati a fare da giudici per le private e pubbliche contese. Per il momento passiamo sotto silenzio l’affinità tra i nomi Deioce, Ducezio e la città gallica di Decezia, per fare notare che tutti gli operatori del sacro in cui siamo incorsi durante le nostre ricerche, provengono da famiglie nobili. Lo sono Zarathustra ed Akt in Persia e Media, lo è Budda in India, lo sono Vercingetorige e Ducezio in Gallia e Sicilia.

Lo stesso Senone di Mene è definito da Cicerone “uno tra i più nobili della sua città” (Verre III,55), identica definizione che Diodoro aveva usato sia per Arconide, anch’egli in odore di appartenenza a questo speciale sacerdozio, sia per Ducezio. L’appartenenza del neofita ad uno strato sociale elevato era condizione necessaria per diventare leader ed essere istruito dai Druidi. I Druidi, dice Cesare, potevano mettersi essi stessi a capo di eserciti o istruire chi, per innato intuito, aveva le doti necessarie per fare da guida al proprio popolo. Quest’ultimo sembra il caso del gallo Vercingetorige, come pare suggerire il prefisso sacro Ve che compone il suo nome. La nobiltà degli appartenenti all’ordine sacerdotale dei Druidi ci induce a ritenere che l’ordine dei cavalieri Teutonici formatosi nel Medioevo, che proibiva l’accesso ai non nobili, in qualche modo si rifacesse all’antico sacerdozio druidico. La nobiltà caratterizzava anche il popolo dei Senoni. Di loro, infatti, Tacito afferma che erano considerati i più nobili tra i Germani e ciò a motivo della loro antichità, attestata, secondo lo storico romano, da un rito che essi celebravano.

Il rito in questione, celebrato in onore dell’Avo, mette ancora una volta in evidenza le comuni radici tra Sicani e Senoni. Se dunque a Mene ritroviamo un etnico, Senone, non dovrebbe meravigliare che il nome di Ducezio, nato a Mene, sia simile a quello della città gallica Decezia, citata da Cesare nel libro VII,33 del De bello gallico. Il fatto che tutto il popolo gallo si fosse recato a Decezia, riunito in una gigantesca assemblea per parlamentare col generale romano ed eventualmente deliberare per acclamazione, permette di azzardare la traduzione del toponimo, che potrebbe derivare dal vocabolo cenedl che, nella lingua irlandese, indica una comunità di individui legati da vincoli di sangue. Decezia, dunque, rappresentava il luogo deputato a raccogliere tutte le stirpi consanguinee dei Galli, centro sacro di raccolta, in perfetta sintonia con le abitudini di tutti i popoli germani, perdurate fino in epoca vichinga, quando in Svezia i re si recavano nella prateria di Mora, nei pressi di Upsala, per essere eletti dal popolo. Se questa interpretazione fosse esatta, il nome del condottiero siculo Ducezio potrebbe essere stato un appellativo per indicare l’uomo come colui che era stato eletto per essere la “guida delle stirpi” consanguinee dei popoli siciliani. Lo stesso può affermarsi per il nome, storpiato per la differente pronuncia, di Deioce, avendo egli riunito le stirpi mede in un unico popolo.

Un’ulteriore prova della presenza druida in Sicilia può essere rappresentata dall’effige delle monete coniate in Sicilia e in particolare nella città di Adrano, la città sacra che, come Decezia, era il centro di raccolta in cui si tenevano le assemblee, monete in cui si vede un’aquila che ha predato una lepre. Infatti fra i Celti il falco era il simbolo della vittoria e veniva raffigurato sopra la lepre. Il simbolo della lepre e la sua allegoria si ripete nel caso di Ciro, definito impropriamente persiano in quanto la madre era Meda. Sottolineiamo questo fatto poiché riteniamo che i Medi fossero di etnia celta, pertanto il medo Arpago, quando invia la lepre a Ciro, è certo che il re ne comprenderà il simbolismo grazie all’ascendenza materna.

IL DIO SCANDINAVO ODHR E IL DIO SIKANO ODHR-ANO. DRUIDI ANTE LITTERAM?

Non è solo la prateria di Mora a mettere in relazione la Sicilia con la Scandinavia, né l’antico toponimo dell’isola S(i)kania, identico alla regione scandinava Skania, né lo è l’antroponimo Teuto, principe d’Innessa; il trade union per eccellenza è rappresentato piuttosto dal nome del dio o dell’Avo comune: Odhr, il furioso, il primo Druida, colui che, per primo, si confrontò con le forze ultrafisiche che lo ferirono sì, ma non lo spezzarono. Ci chiediamo se lo scandinavo Odhr-inn e il sikano Odhr-an siano la medesima divinità. A giudicare dall’aggettivo “furioso” utilizzato per delinearne il carattere, si direbbe che questi dèi  comunicassero con gli eredi umani attraverso violente e non meglio definite manifestazioni. Ma ciò che a noi interessa è il constatare che la genesi del druidismo si verifica in Scandinavia e che il primo druida porta l’aggettivo Odhr, che lo lega alla Sicilia. Il furore dello scandinavo Odhr-inn sarebbe diventato in Sicilia il furore dell’Avo, Odhr-An.

La presenza in Sicilia degli etnici Senone e Teuto, l’appellativo Ducezio, l’aggettivo Odhr, furioso, rinvenibile nel nome del dio Adrano e  poi ancora l’uso in Sicilia del tipico linguaggio runico o metafisico utilizzato dai Druidi e rinvenibile nel toponimo Ass-Hor (Assoro) costituiscono traccia della comune etnia e, di conseguenza, della comune mitologia tra Sicilia e l’Europa settentrionale. L’attribuzione alla mente di un potere creativo, che è un leit motiv druidico, è rinvenibile nel toponimo Mene (mente); nel suono runico ass che compone il toponimo Ass-or e che significa il “pronunziatore”, “colui che crea attraverso la parola” e fa sì che il potere del pensiero diventi materia. Secondo lo studioso Kenneth Meadows, nel linguaggio runico “ass esprime la capacità dello spirito di essere contemporaneamente dentro e fuori le cose create” e “rappresenta il potere che viene ricevuto ed espresso attraverso la mente”. Ass è la runa che simboleggia il dio scandinavo Odhr-inn.

Vaso con svastica esposto nel Museo di Caltanissetta

Le comuni origini tra il sud dell’Europa, la Sicilia, e l’estremo nord, la Scandinavia, sono ancora tradite dal medesimo simbolismo, la svastica, la croce inscritta nel cerchio, ma anche dalla presenza dei Senoni, in Sicilia come in Svezia;  anzi, il nome della Svezia probabilmente deriva proprio da Svea rike, regno dei Sviones. Il termine Suiones viene utilizzato da Tacito e, in seguito, con la variante Sueones, da Adamo da Brera. Quando, poi, la coltre di ghiaccio provocata dal dio Angra Mainyu, secondo la tradizione avestica, seppellì la Scandinavia in tempi immemorabili, essi dovettero migrare verso sud, dove il “dio sole” continuava a splendere.

Le variazioni di S in Z, P in F, B in P ecc. postulate da Grimm sono, a nostro parere, l’effetto di una peculiarità della pronuncia; si pensi al caso della c fiorentina pronunciata come h aspirata. In ambito germanico crediamo che sussistessero notevoli differenze di pronuncia tra gli Scandinavi e i popoli germanici del centro Europa, caratterizzati dal forte accento gutturale che impressionò Tacito. Una pronuncia addolcita e dunque palatale del nesso consonantico sc è tipica degli Scandinavi, mentre la pronuncia gutturale caratterizza i Germani. Il carattere distintivo della pronuncia quale spia di una diversa appartenenza etnica emerge anche da un aneddoto raccontato nell’Antico Testamento (Giudici 12,6): per scoprire l’identità dei fuggiaschi Efraimiti, i Galatiti ordinavano ai prigionieri di dire “scibbolet”; se pronunciavano sibbolet, venivano passati a fil di spada.

Diodoro attesta che Ducezio nacque a Mene o Noa. Il lessema Noa è contenuto nel toponimo Bal-gonner-nau,  antico nome dell’attuale Palagonia, che significa “i signori (bal) protettori (gonner) dei naviganti (nau)”, con riferimento agli dèi Palici, il cui culto oracolare era esercitato presso l’antro che si trova esattamente a metà strada tra Mineo e Palagonia. Ducezio era il sacerdote di questo culto tanto che, quando prese le redini del comando militare al fine di riportare alla luce le antiche tradizioni dei Siculi\Sicani, minate dalla cultura greca, eresse, laddove vi era un semplice antro, uno splendido santuario a questi gemelli, santuario ancora in uso ai tempi di Diodoro, che lo descrive nei particolari.

DRUIDI CELTI E DRUIDI SICANI: OPPOSTE SCUOLE DI PENSIERO

È ora il caso di soffermarsi sulle differenti posizioni circa la nuova visione del mondo maturata dai druidi Sicani, fin dal primo momento del loro insediamento in Sicilia, rispetto a quella dei loro omonimi celti. Le differenze sostanziali circa l’interpretazione del proprio ruolo in seno al cosmo emergono dalla semantica di termini religiosi di probabile derivazione nordica e soprattutto dal simbolismo di svastiche, trinacrie, ruote solari, spirali, tutte caratterizzate da un moto apparente in senso antiorario. Sul significato della direzione del moto, verso sinistra o verso destra, si è già argomentato in vari articoli; qui si vuole porre l’attenzione sulla deliberata scelta evocativa, da parte dell’ordine religioso sicano degli odhr-an-iti, di adottare per l’isola di Sicilia il movimento simbolico del sole, da destra verso sinistra, scegliendo conseguentemente di attuare una politica di non belligeranza, di accoglienza, di sintonia con le forze armoniche che regolano l’universo.

I principi siciliani, scelti dai sacerdoti ed eletti dal popolo, vennero educati ed iniziati dai sacerdoti odhr-an-iti (Adraniti) al fine di conseguire un sapere, una capacità di autocontrollo che permettessero loro di destreggiarsi con successo fra le forze avverse. Questo atteggiamento emerge sia dal ripetersi insistente del simbolismo della trinacria e della svastica, caratterizzate da un apparente quanto evidente senso rotatorio antiorario,  impresse nelle ceramiche di probabile utilizzo religioso, collocabili forse per datazione in epoca sicana, sia dai pochi frammenti di versi, attribuibili ad antichi letterati, nei quali vengono narrate le gesta dei re sicani, da Cocalo e Iblone a Teuto. Tutti questi principi siciliani di epoca pre-greca, dei quali è certa l’etnia sicana, sono caratterizzati dall’esercizio del sacro istituto dell’accoglienza nei confronti dei supplici, non diversamente dai Suiones, come emerge dal racconto di Adamo da Brera e, circa un millennio prima, dalla narrazione di Tacito.

Cocalo e Iblone accolsero e ospitarono profughi di ogni ceto e derivazione geografica, permisero loro di insediarsi nel proprio territorio, di edificare le loro città e praticarvi i propri culti, anche quando questi erano antitetici circa la visione del mondo sicana, come nel caso dei Cretesi che, al culto dell’Avo (Ano) o alla predominanza dell’istituto sociale basato sul patriarcato, anteponevano il culto della madre e del matriarcato. Cocalo anticipò di millenni il concetto cristiano sintetizzato nell’espressione “ama il tuo nemico” tanto che, all’esercito nemico arrivato da Creta al seguito del re Minosse, il quale voleva rendere tributaria la Sicilia, egli, re magnanimo, dopo averlo sconfitto, senza imporre tributo di sangue, con acume e saggezza, offrì territori perché i nemici sconfitti potessero fondarvi città e istituire culti propri. Si comprende dunque quanto fosse radicato in Cocalo il concetto di tolleranza e quanto profonda fosse la conoscenza delle cose sacre se il re giungeva al punto da permettere ai nemici sconfitti libertà di culto.

Tale saggezza non può non essere messa in relazione con quanto avvenne in altre aree geografiche, come affermato nelle Cronache di Nestore. In queste cronache viene raccontato che quella vasta area geografica, oggi chiamata Russia (rus fu un soprannome dato ai soli Vareghi e poi, per estensione, ai popoli a loro sottoposti), nel Medioevo era un’area politicamente caotica e anarchica; pertanto fu chiesto ai Vareghi (nome derivante da vara fiume e gehen andare), cioè agli attuali Svedesi, allora chiamati anche Vichinghi, assieme a Norvegesi e Danesi, di inviare dei re al fine di governare saggiamente e col carisma dell’autorità, caratteristiche in loro innate, quei luoghi. I re\sacerdoti siciliani, a memoria d’uomo, non intrapresero nessuna guerra di conquista. Quando furono costretti ad impugnare le armi, lo fecero, come si comprende dal significato del nome Cocalo, solo per la difesa del territorio, un territorio scelto da dio per loro, avuto in dono direttamente dall’Avo divinizzato (Ano) in tempi che sfuggono alla cronologia umana, con il quale i Sicani avvertivano di formare un unico corpo.

Intenso era dunque il rapporto dei Sicani, come dei Druidi, con la natura. Ai Druidi era sacro l’albero della quercia; tuttavia Cicerone afferma che ad Adrano (citata nelle Verrine col suo precedente nome Etna) Apronio riceveva i suoi interlocutori nella piazza centrale, sotto l’ombra di un enorme olivo selvatico. La presenza di un olivo secolare nella pubblica piazza di una prestigiosa città non crediamo fosse  casuale, crediamo, piuttosto, che avesse un significato occulto, altamente simbolico. Infatti il simbolismo della pace collegato a quest’albero è antecedente all’avvento del Cristianesimo e la sua presenza nella città\santuario, del dio Adrano appare oltremodo coerente con il concetto metafisico della Sicilia quale terra di pace ed emanazione di Dio. Inoltre, il fatto che quest’albero e la piazza che lo ospitava si trovavano nei pressi del santuario dell’Avo Adrano, come crediamo, carica il simbolismo dell’ulivo di un valore non dissimile da quello attribuito all’ulivo di Atene, protetto addirittura da guardie, in quanto nato dalla lancia di Atena. Come Atena, l’Avo Adrano era raffigurato in una statua con la lancia e nelle monete adranite ora con l’elmo, dunque in veste guerriera, ora con la testa cinta di rami (di olivo?) intrecciati, cioè in veste sacerdotale.

La collocazione dell’ “albero della pace” nella piazza adranita rientra nella particolare visione del mondo abbracciata dall’ordine sacerdotale degli odhr-an-iti (Adraniti), i quali utilizzavano il movimento antiorario e dunque augurale in antitesi rispetto a quello orario, foriero di eventi violenti. Ad Adrano, nella valle delle Muse, sulla parete di un levigato basalto sotto il quale scorre la fonte degli dèi Palici, alla fine dell’epigrafe su di esso incisa, è raffigurato un albero, con evidente riferimento simbolico ad un percorso iniziatico che doveva svolgersi a partire dalla fonte su menzionata. Inevitabilmente il pensiero corre anche all’albero della conoscenza della mitologia nordica, nel quale Odino esegue la propria impiccagione iniziatica. All’ulivo, Omero fa riferimento nell’Iliade quale albero di buon auspicio, che sancisce legami affettivi, tanto che Ulisse ricava il proprio talamo dal tronco di un ulivo secolare, non sradicato, attorno al quale aveva edificato la propria camera da letto. Stazio, nella sua opera, l’Achilleide, descrive Ulisse mentre si reca alla corte di Licomede per convincere Achille a dare il suo contributo nella guerra contro Troia, “portando un ramo d’ulivo e parole di pace”. 

L’affinità tra i Sicani e i popoli nordici emerge anche da altri elementi. Sul letto del fiume Simeto, presso Adrano, sede del culto degli dèi Palici, si trova un grande masso di arenaria, simile ad un’isola, con delle incisioni assimilabili a gradini che conducono fino alla sua sommità, dove vi sono due vasche. Si ritiene che questo sito fosse utilizzato sia per celebrare i sacrifici in onore degli dèi Palici e sia per  l’intronizzazione del re eletto dall’assemblea. Infatti, presso tutti i popoli nordici era abitudine che i re eletti, per giurare e ricevere il sacro mandato di governare, si recassero presso una sacra pietra collocata naturalmente in una grande vallata. La pietra su cui saliva il re germanico faceva da palco, essendo visibile dall’intero Thing (assemblea), che inneggiava alla sua elezione; vogliamo immaginare che anche Timoleonte venisse eletto all’unanimità condottiero dai Siculi della Sicilia, chiamati a raccolta presso il grande sasso della valle delle Muse. A Upsala, in Svezia, si è conservata memoria di questa pratica ancora in tempi relativamente recenti. Se Upsala fu il centro sacro della Svezia, Adrano lo fu della Sicilia.

Ancora, se è vero, come riteniamo, che nella famosa stele adranita del Mendolito la sequenza sillabica teuto faccia riferimento al famoso re omonimo, si aggiunge un ulteriore elemento che conferma la presenza druida in territorio sicano. Infatti non si può non accostare il nome del principe d’Innessa, Teuto, alla divinità celta Teutates, dio della guerra, della fertilità e padre del popolo celta. Si tenga conto inoltre che la fonte degli dèi Palici, ove è incisa l’epigrafe e l’albero, l’epigrafe sulla stele ove viene citato il principe Teuto e il grande sasso sul fiume insistono tutti nella medesima area.

I RE MITICI DELLA SICILIA

Per comprendere l’atteggiamento di questi re pacifici siciliani è necessario fare la comparazione con le due classi sociali presenti in Gallia di cui ci parla Cesare, quella dei cavalieri e quella dei sacerdoti. Appare evidente che in Sicilia, almeno nel caso di Cocalo, queste due classi si incarnano nel medesimo uomo, possibilità riconosciuta dallo stesso Cesare per i Galli. Il romano afferma ancora che, fra i sacerdoti, solo uno stava nella posizione più alta del comando, a cui tutti obbedivano. Alla sua morte vi succedeva chi aveva acquisito meriti maggiori. A noi sembra, questo, il caso concretizzatosi in Sicilia con il principe Ducezio, il quale viene investito nel medesimo tempo, del potere temporale e di quello spirituale, al punto da costruire santuari e dichiarare guerra ai nemici, con la medesima autorità.

MAGIA

Diogene Laerzio era a conoscenza di un libro sulla magia praticata dai Druidi. Siamo certi che, se un tale libro esisteva, non era stato scritto dai Druidi o, se lo avevano fatto, questi non avevano più nulla in comune con quei primi Druidi che affidavano solo alla forza della mente la memoria di ogni sapienza. Strabone, già nella sua epoca ( a cavallo tra I sec. a.C. e I d.C.), fece riferimento alla degenerazione del ruolo sociale dei Druidi, al punto che Augusto proibì le pratiche druidiche, sicché nessun romano avrebbe potuto accostarvisi. Cesare afferma che per i Druidi era sacrilego mettere per iscritto le loro conoscenze e ciò, probabilmente, a motivo della loro considerazione circa l’indole umana. Sapevano, infatti, che la divina conoscenza, posseduta da infimi individui, sarebbe potuta diventare un’arma a doppio taglio, nella migliore delle ipotesi sarebbe potuta diventata opera innocua, utilizzata, per sbarcare il lunario, da fattucchiere come Sagana e Canidia, che Orazio prende in giro nella SatiraVIII.
Se oggi il nome magia veicola un senso di diffidenza e paura verso chi la pratica, tuttavia un tempo essa fu sinonimo di conoscenza e scienza, quest’ultima applicata soprattutto allo studio degli astri. I Magi che andavano in giro per la Palestina alla ricerca di un grande re nascituro, erano astronomi e nei Vangeli vengono definiti re. Anche in Persia, al tempo di Zarathustra, è attestato il temibile mago Akt. I Druidi dunque, come i loro “colleghi” maghi, furono tra i primi studiosi della volta celeste. Come non attribuire a loro, pertanto, la presenza dei capitelli rinvenuti ad Adrano, ove sono incisi il calendario solare, quello lunare e le spirali simbolo delle galassie? Cicerone, nelle Verrine, afferma che i Siciliani utilizzavano ancora al suo tempo il calendario solare e quello lunare. Per ciò che concerne l’attività principale esercitata dai nostri sacerdoti adraniti, essa è tradita dal significato del loro stesso nome: “Gli evocatori (heitan, iti) del furore (odhr) dell’Avo (An)”. Certi che il termine di paragone sarà efficace, possiamo dire che il “furore divino” o “ispirazione” evocato dagli adraniti era l’equivalente dello spirito santo evocato dai primi apostoli, grazie al quale si otteneva la conoscenza. Con il termine Odhr, come il suono onomatopeico lascia immaginare, s’intendeva evocare una forza temibile che, una volta “domata”, fosse sottoposta al servizio dell’operatore. È possibile definire gli evocatori dell’odhr dei temerari che osavano sfidare la più pericolosa delle manifestazioni divine, per imbrigliarla e ridurla al proprio potere. Ciò è evidente nell’Avesta, ove Zarathustra manifesta il suo timore nei confronti della Drui.

Le norne che tessono i fili del destino ai piedi dell’albero Yggdrasil
Sull’uso positivo che i sacerdoti sicani fecero del “furore divino” non è il caso di ripetersi, in quanto abbiamo sopra sostenuto che esso trapela dal verso antiorario dei simboli religiosi della trinacria e della svastica. Possiamo aggiungere, onde riallacciarci alle comuni origini con gli Scandinavi, che Odhr-inn, secondo il mito norreno, offrì l’occhio sinistro quale sacrificio per trascendere la morte. Fuor di metafora, l’Avo divinizzato scandinavo aborrì la violenza, comunemente attribuita al lato sinistro e definita in ambito esoterico come via della mano sinistra. Poiché la provenienza da destra ha valore augurale, Odino, rimanendo simbolicamente solo con l’occhio destro, acquisì l’onniscienza e la saggezza. Si comprende allora perché il popolo svedese dei Senoni – discendenti di Odino e progenitori dei Galli Senoni di cui parla Cesare e dei germanici Semnoni attestati da Tacito – fu così denominato: Senoni, derivando dai lessemi sehen (vedere) e nor (destino), significa “coloro che vedono il destino”.
Avendo fatto Odino la scelta di perseguire la “via della mano destra” e di prodigarsi per il bene dell’universo, gli scandinavi, constatato che l’Avo divinizzato aveva agito a prezzo di sacrifici personali, lo onorarono quale dio guaritore che aveva come suo unico scopo il bene di tutti. Crediamo che gli Odhr-an-iti, perseguendo i medesimi obiettivi, si adoperassero al fine di mantenere l’equilibrio cosmico, atteggiamento rinvenibile nel simbolismo della doppia spirale incisa nei manufatti e che ricorre con inusitata frequenza in tutto il territorio siciliano.

I SICULI E LA PIETRA RUNICA DI ADRANO

Nelle sue armi splendide si stava
d’Arcente il figlio (Capi), in clamide dipinta
di ferrugigna porpora lucente.
L’aveva mandato di Sicilia il padre
da lui nutrito nel materno bosco in riva del Simeto,
dov’è la mite ricca di doni ara di Palico.
Virgilio, Eneide, lib. IX

AFFINITÀ TRA SICULI, SICANI e POPOLI NORDICI
Si ritorna in questo studio sulla tesi, più volte richiamata, circa le affinità tra il popolo dei Siculi con quello dei Sicani e di entrambi con i popoli coevi che abitarono il nord Europa.

I due nomi, Sicani e Siculi, erano degli appellativi apposti a due tribù della Sicilia, appartenenti ad una medesima o affine etnia e accomunate da una stessa weltanshauung, al fine di indicarne i rispettivi ruoli sociali.

Come le tribù dei Leviti e dei Giudei, due delle dodici tribù israelite, ognuna derivata da uno dei dodici figli di Giacobbe, avevano il compito di fornire all’intera società israelita rispettivamente i sacerdoti e i re/guerrieri, così i Sicani ed i Siculi di Sicilia avevano il compito di fornire al popolo siciliano rispettivamente i sacerdoti e i capi politici. Siculi, infatti, come affermato in altra sede e come più avanti richiamato, significa letteralmente “mandriani” e, su un piano metaforico, guida politica di uomini, di un popolo.

I Siciliani, ai quali fu invisa ogni forma di dispotismo, affidavano ad un “principe”, come lo definisce Diodoro Siculo, scelto quale primus inter pares e coadiuvato da un consiglio o assemblea popolare con funzioni consultive e dall’ordine sacerdotale, la gestione del governo di un comprensorio territoriale formato da una città principale, in cui si trovava la sede regia e la casta sacerdotale, e da una serie di villaggi da essa dipendenti.

La convinzione che la differente denominazione delle due tribù in oggetto volesse esplicitamente indicarne la differente funzione sociale, è la conseguenza della tesi secondo la quale le medesime fossero in realtà componenti di un unico popolo che, in tempi remotissimi, era giunto in Sicilia dall’estremo nord Europa, suddividendosi, lungo il percorso da nord a sud, in mille rivoli e dando conseguentemente vita a civiltà simili tra loro. Alla luce di questa affermazione si ritengono coeve le tribù siciliane dei Ciclopi, dei Lestrigoni, dei Feaci , dei Sicani e forse dei Siculi, per quanto, storicamente l’arrivo di questi ultimi in Sicilia sia attestato solo nel XII secolo.

Come sopra anticipato, ai Sich-Ahne o Sicani spettava il compito di trasmettere l’eredità atavica agli eredi attraverso le caste sacerdotali degli Adraniti e degli Erbitei; ai Sich-kuh o “mandriani” di popoli, metafora affine a quella cristiana e israelitica di “pastori” di genti, spettava il compito di difenderla, anche con le armi se necessario.

In merito alla collocazione temporale dei Siculi è necessario effettuare alcune precisazioni: la tesi qui esposta secondo cui i Siculi erano probabilmente coevi dei Sicani e degli altri popoli sopra citati, che trae i suoi presupposti da osservazioni e ragionamenti esposti in altri studi, non ignora né contesta il fatto che nel XII secolo in Sicilia fosse giunto un popolo chiamato Siculo, tanto più che l’immagine dei popoli del mare, tra i quali si annoverano anche i Siculi, su carri trainati da buoi, fu incisa, per volontà di Ramses III, nel tempio di Abu Medinet a memoria della vittoria egiziana. Si ritiene tuttavia che in Sicilia vi fosse una presenza sicula anteriore a quella storicamente attestata del XII secolo e che comunque l’appellativo figurato di “mandriani” o Sich-kuh esistesse in Sicilia ancor prima che il faraone facesse incidere nel tempio i nomi dei “popoli del mare”, espressione con la quale veniva genericamente indicata una moltitudine di popoli provenienti dal nord Europa, eterogenea ma etnicamente affine, che aveva imperversato per anni in Asia prima di essere sconfitta e poi dispersa in mille rivoli in Egitto da Ramses III; allo stesso modo i Cimbri e i Teutoni, che da tempo scorrazzavano per l’Europa, nel 104 a.C. furono sconfitti dal console Caio Mario. Il tragitto dei popoli del mare era iniziato nel nord Europa e proseguito fino al Mar Nero; forse proprio la provenienza da questo mare valse loro l’appellativo di “popolo del mare” prima e poi, in Mesopotamia, ove si stanziarono, il nome affine di Sumeri o Zu-meer (“attraverso il mare”, in lingua nord europea). Dal Mar Nero il passaggio in Asia attraverso l’Anatolia è naturale. Già Diodoro Siculo fa riferimento ad una sottomissione dell’intera Asia da parte dei Cimbri, da lui denominati Cimmeri, avvenuta in tempi assai distanti dai suoi: essi, come cavallette su un campo di grano, distrussero l’impero ittita, non lasciarono traccia di quello miceneo né di tutti quelli che man mano incontravano nel loro passaggio. Tuttavia la gran massa d’uomini si assottigliava lungo il percorso in quanto, man mano che distruggevano gli imperi, si stanziavano nei territori devastati, dando vita a nuove civiltà, come quella dei Medi, dei Persiani o dei Mitanni. Quando il popolo del mare giunse in Egitto, era ormai molto ridotto; fu per questo che Ramses III poté sconfiggerlo e ricacciarlo indietro. Il composito popolo, fatta la sua ultima tappa nella filistea Ascalona, si disperse e le differenti tribù presero commiato le une dalle altre e si divisero per etnia; quella che giunse in Grecia diede vita alla civiltà dorica, mentre i Siculi raggiunsero le coste adriatiche dell’Italia e quelle della Sicilia.

Queste rotte erano conosciute dai nuovi immigrati; i loro antenati, infatti, le avevano già percorse più e più volte. Erano perfino a conoscenza della fama che si era guadagnata la Trinacria\Sicania quale terra ricca e ospitale, in cui, oggi come allora, i profughi, i diseredati, erano i benvenuti, trattati come ospiti dai re magnanimi dell’isola. Di questa ospitalità si erano avvalsi, nei decenni precedenti, il fuggiasco Dedalo, il quale aveva trovato asilo alla corte del principe Sicano Kokalo, il principe cretese Radamanto, accolto dai Feaci, forse anche lui fuggiasco assieme a Dedalo a motivo dell’avidità del re cretese Minosse. Kokalo, il magnanimo re sicano, offrì terre da abitare e templi per pregare anche all’esercito sconfitto di Minosse. Altri illustri profughi che godettero della magnanima accoglienza siciliana furono Ulisse e poi Enea col suo seguito; anche per questi ultimi fu messa a disposizione tanta terra quanta ne serviva per fondarvi città. L’eredità della sacra ospitalità fu raccolta, secoli dopo, dal magnanimo re Iblone, il quale avrebbe costruito una città per i fuggiaschi Megaresi guidati dall’ingrato Archia.

Pietra runica vichinga.

Poiché nessuna tradizione siciliana racconta di una guerra di respingimento dei Siculi da parte dei Sicani, è chiaro che questi ultimi dovettero essere stati considerati dei profughi ed accolti pacificamente. Comprendiamo che, poiché nell’immaginario collettivo ogni conquista territoriale deve essere legata ad uno scontro armato, la tesi che fa riferimento ad una pacifica accoglienza dei Siculi da parte dei Sicani nel XII sec. a. C. diventa ardua da sostenere. Ciò dipende in parte anche dal fatto che si è immaginato più numeroso del dovuto il numero dei Siculi che approdarono in Sicilia. Infatti, come affermato sopra e come i reperti archeologici dimostrano, parte di essi si era fermata in Puglia e aveva raggiunto anche l’Abruzzo, il Lazio e molta parte dell’Italia centro-meridionale. Perfino Diodoro, che era Siciliano, non avendo trovato nessuna tradizione locale circa uno scontro bellico Siculo-Sicano, per giustificare la presenza dei Siculi in Sicilia orientale, ipotizzò una loro occupazione del territorio in seguito ad una presunta fuga dei Sicani dovuta, a suo dire, alle devastanti eruzioni dell’Etna.

Tralasciando il fatto che, per quanto spettacolari e temibili, le eruzioni del vulcano non potevano essere talmente diffuse da indurre un intero popolo ad abbandonare un territorio ampio come la Sicilia orientale, si osserva che l’insediamento siculo nella parte orientale dell’isola non fu uniforme ma a macchia di leopardo; ciò fa immaginare che furono gli ospitanti Sicani a determinare le caratteristiche di tale insediamento, proprio al fine di favorire l’assorbimento dei nuovi arrivati nel tessuto sociale sicano. Non si potrebbe giustificare altrimenti la presenza, citata da Polieno nel suo trattato Stratagemmi, di un principe sicano che, ancora sei secoli dopo l’arrivo dei Siculi, nel VI sec. a C., regnava sulla prestigiosa e ricchissima città di Innessa, posta alle falde dell’Etna, nella Sicilia orientale. Del resto, se fosse vero, come ipotizzato da alcuni studiosi, che i Siculi si insediarono con la forza delle armi in Sicilia orientale, cacciando i Sicani, non si potrebbe logicamente spiegare la presenza isolata del regno sicano di Inessa all’interno di un “oceano” siculo: la città era, infatti, ricchissima, posta in un luogo fertile e ricco di acque, munifica, appetibile per ogni conquistatore e, se aveva stimolato gli appetiti predatori del tiranno agrigentino Falaride, non si capisce per quale motivo non avrebbe dovuto stimolare anche quelli dei presunti nemici siculi. In realtà, non esisteva conflittualità tra le due tribù, né è immaginabile, come sostenuto da alcuni, che i Sicani fossero stati cacciati dai Siculi; i Sicani, che abitavano l’intera isola, denominata di conseguenza Sicania oltre che Trinakria, e che avevano contrastato il potente esercito cretese di Minosse, non avrebbero avuto molte difficoltà a sconfiggere un popolo ormai stremato e numericamente esiguo.

Stele o pietra runica di Adrano,
Museo P. Orsi di Siracusa.

Che i Siculi respinti da Ramses III si fossero integrati con gli affini Sicani lo testimoniano, oltre al racconto citato di Polieno, in cui si attesta la convivenza pacifica del regno sicano di Innessa all’interno di un territorio siculo, la presenza di nomi nord europei che continuarono ad essere presenti sia nella Sicilia orientale che in quella occidentale, anche dopo la pseudo invasione sicula. Tra tutti facciamo riferimento al teonimo Adrano, nome composto da Odhr (furioso) e Ano(avo, antenato) così come Sicano è composto da sich (pronome riflessivo) e Ano, con cui veniva designata la più importante divinità sicana, rimasta oggetto di grande culto anche in periodo siculo, dato che il tempio del dio sopravvisse fino al 213\211 a. C., anno in cui, per volontà dei Romani e per decreto dei Decemviri, venne chiuso al pubblico culto. Che il dio fosse sicano e precedente all’arrivo dei Siculi lo conferma il fatto che il suo culto era praticato in tutta l’isola ed era ritenuto il padre della nazione e del popolo siciliano. Il culto del dio nazionale, Adrano, era e rimase presente nella parte occidentale dell’isola prima e dopo l’arrivo dei Siculi, come testimonia la presenza della fortezza di Monte Adranone nei pressi di Sambuca di Sicilia, un luogo in cui la presenza sicula non è attestata.

Particolare della base della stele di Adrano.

Il culto di Adrano, così come quello dei suoi figli gemelli, detti Palici, non venne dunque portato in Sicilia dai Siculi. Anche il culto dei Palici, come quello del loro divino padre, era praticato sia nella Sicilia occidentale che in quella orientale; nella parte occidentale fu così importante da formare il toponimo della Valle del Belice – dal momento che Bel deriva dal Baal, “signore”, da cui Palici – in cui scorre il fiume omonimo (il culto dei Palici, tra l’altro, è indissolubilmente legato alla presenza delle acque). I Palici erano evocati nella Sicilia orientale presso le sponde del Simeto e la loro ara si trovava nei pressi del santuario del padre Adrano. Dal momento che Adrano era un dio sicano – tanto che i Sicani, autoctoni dell’isola (Timeo), si consideravano orgogliosamente una sua discendenza, come suggerisce il significato del loro nome (“l’avo in sé”) – chi sostiene che i Siculi fossero etnicamente e culturalmente differenti rispetto ai Sicani, dovrebbe chiedersi quale fosse il dio venerato dai Siculi e per quale motivo non sia rimasta traccia di tale culto.

Noi crediamo che il culto reso al dio sicano coincidesse con quello reso al dio siculo, in quanto la patria originaria degli uni e degli altri fu quel nord Europa in cui veniva celebrato il culto di Odhr-in (Odino) così come in Sicilia veniva venerato il sicano Odhr-an (Adrano).